È in atto una rifondazione del partito questo è il vero portato complessivo del dibattito di ieri 13 febbraio 2017 alla Direzione del Pd alla sala Fellini di via Albert. Le condizioni internazionali mutate e la cornice istituzionale interna richiedono di capire la nuove sfide e di definirsi rispetto a esse.
Parlerò in termini volutamente brutali tanto di termini sfumati è pieno il web e le prime pagine dei giornali.
Primo problema la globalizzazione. I democratici si sono interrogati e divisi ovviamente contro una minoranza tendente a disconoscere il presupposto della globalizzazione come cornice di tutte le politiche.
Il perché è presto detto: la globalizzazione richiede il permanere e il rafforzamento dei vincoli europei e dei parametri di bilancio relativi. Questo implica per la minoranza Pd di non poter proporre interventi in economia senza prospettare nuove tasse, un aumento della tassazione patrimoniale e il ritorno alla tassa sulla prima casa. Questo quadro in pratica impacchetta Bersani e i suoi in una forza politica marginalizzata ormai relegata al ruolo della testimonianza.
Ma se invece si legge il mercantilismo di Trump - un Giulio Tremonti dice che Trump è mercantilista, non protezionista, orientato cioè a trattare il libero mercato con accordi bilaterali nei quali gli Usa sono sempre il contraente forte - come protezionismo e si immagina un lento inesorabile ritorno ai dazi, per l’Italia diventerebbe meno urgente e stringente la necessità di aumentare la produttività di sistema. Meno necessario fare le famose riforme strutturali efficientistiche che comprimono gli spazi assembleari, partecipativi e condivisivi propri della visione della democrazia kelseniana del nostro impianto istituzionale e della sinistra storica che ad esso diede vita. Sarebbe possibile immaginare un ritorno indolore al deficit spending, alla politica degli investimenti e delle elargizioni di stato.
Insomma diventare liberali? Ma anche no dicono Bersani & Co, oggi non serve più perché la globalizzazione è finita, si torna al protezionismo e possiamo ricominciare come prima e concentrarci sul problema dei problemi: combattere il ritorno del fascismo.
Insomma con le posizioni programmatiche di ieri la sinistra interna ammette implicitamente di non aver risposte da dare se il mondo nuovo è quello di cui Renzi parla - se non una nuova tassazione patrimoniale - ribadisce le proprie vecchie ricette e, per dar loro corso, dice che il mondo non è quello in cui Renzi immagina di vivere ma quello in cui Trump e Le Pen ci stanno riprecipitando.
Il dubbio che la storia non torni mai sempre uguale e che Trump non sia protezionista ma banalmente mercantilista - rendendo ancora più stringente la necessità di compattare il mercato europeo - mina la proposta politica della minoranza PD, e la rende sospetta di passatismo strumentale, di dar corpo al desiderio che la storia inveri un mondo in cui quelle proposte e quel tipo di partito riacquistino un senso.
Di contro Matteo Renzi è sempre avanti, più avanti nell’elaborazione di analisi e percorsi. Renzi ieri ci ha detto che dalla globalizzazione non si torna indietro perché essa ha elevato le condizioni di masse enormi di derelitti e, sì, ha pauperizzato il ceto medio, l’elemento sociale dominante nell’Occidente avanzato e dunque chiede al socialismo di farsi socialismo liberale per dare risposte al ceto medio. Renzi ha citato la clamorosità di un leader cinese che apre il G7 inneggiando al libero mercato. Al ceto medio occorre dare la dignità della libertà individuale, una cornice di poteri e di orgoglio di classe che fa a pugni con la tradizionale subordinazione della libertà ai valori di uguaglianza della democrazia partecipativa teorizzata nella nostra Costituzione e nel bagaglio valoriale della sinistra. Renzi propone al PD di avviarsi a ragionare nel solco della proposta di Emmanuel Macron candidato indipendente alle presidenziali francesi: diritto al lavoro e vero potere all'elettore e al cittadino in quanto solo cittadini liberi, responsabili e completi possono realizzare il progetto di una società senza sperequazioni. In questo quadro il nuovo ceto medio macronista deve chiedere e pretendere di porre le proprie condizioni in termini di autonomia e sovranità nell'imminente ricontrattazione europea del fiscal compact.
In questo dibattito è perciò importante capire cosa ha veramente detto Andrea Orlando ieri nel proprio intervento terzista, rafforzato dall’astensione nel voto finale. Orlando ha chiesto un momento di confronto sui contenuti, una conferenza programmatica da tenersi prima del congresso, agitando lo spettro che in assenza di un grande dibattito tematico non maturino le energie per contrastare con efficacia nelle urne l’ascesa del movimento a 5 stelle e o l’antipolitica. Leggasi se quelli di Bersani fanno la scissione, noi contro il M5S perdiamo. Ci si chiede se in questa posizione di Andrea Orlando vi sia il tentativo di superare il dibattito sulla leadership per creare sul terreno programmatico nuove trasversalità, rimescolare le carte e scongiurare la scissione. Considerato il taglio un po’ doroteo del personaggio può essere che al centro ci sia la stimata perdita dei tre punti percentuali che D’Alema porterebbe con sé andandosene, ma magari c’è invece il rilancio della propria figura di mediazione.
Renzi ha avuto buon gioco a replicare ammonendo a non avere paura del voto.
Monica Montanari
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