Luigi di Maio dice una mezza verità e questa è una notizia. Dice che il “no” al referendum interno di Alitalia contro gli accordi di risanamento è una grande ribellione ed è vero. Purtroppo per lui però non è una ribellione contro il governo Gentiloni.
In un tweet Luigi di Maio così ha commentato oggi il risultato negativo del referendum interno dei lavoratori Alitalia:
«Il Governo ha perso un altro referendum. Nonostante il terrorismo di Delrio e Calenda, i lavoratori hanno detto NO. Altra batosta.»
E in effetti i lavoratori di Alitalia dicono “no” allo Stato Italiano e al Paese: non continuerete ad avere una compagnia di bandiera sulla nostra pelle. Non accettiamo il ricatto occupazionale, il patto leonino che ci costringerebbe a licenziare dei nostri colleghi. O ci tenete tutti o rinunciate ad avere linee aeree di bandiera.
La forza di questo irrigidimento dei dipendenti Alitalia ciò che ne fa un atto insurrezionale è la consapevolezza di rimetterci il posto tutti quanti. Eppure sono disposti a farlo pur di dire "basta".
I dipendenti Alitalia non possono non sapere che agli italiani non frega né punto né poco della compagnia di bandiera e che non sono più disposti a sganciare un centesimo.
Dunque la perdita del posto dei dipendenti Alitalia è un’eventualità di cui coloro che hanno votato “no” non possono non essere consapevoli.
Il “no” del referendum Alitalia è un compiuto atto insurrezionale sotto il profilo politico, una denuncia del patto costituzionale per il contenuto di sfiducia palingenetica che esso implica nei confronti del Paese.
Se dunque Luigi Di Maio avesse detto quello di Alitalia è stato un "no" al Paese, onore al merito, lo ha detto. Ha avuto il coraggio così poco istituzionalmente bon ton di dire che il re è nudo.
Doveva fermarsi qui e lo avremmo plaudito. Purtroppo non ha resistito a farsi il selfie sulle disgrazie altrui per lucrare qualche voticino.
Secondo Di Maio il “no” dei dipendenti Alitalia contro l’accordo di risanamento è invece un No contro un Governo, non contro lo Stato: un No contro un Governo del tutto estraneo alla storia aziendale.
Il Governo, intervenuto in via congiunturale con un’offerta di mediazione, ha proposto un accordo per dilazionare e rendere graduale la inevitabile fuoriuscita dal mercato di un vettore che lo sappiamo da venti anni non riesce a essere competitivo.
Il “no” esasperato dei lavoratori Alitalia è il frutto di una storia di lento declino ed è dunque da dirottare contro coloro che da decenni mettono il piombo nelle ali della compagnia di bandiera non certo di chi interviene buon ultimo per turare la falla nella carlinga.
C’è però un altro profilo della vicenda che invece si raccorda al referendum di dicembre.
Si profila, se e nelle misura in cui il “no” è ispirato dal rifiuto dei dipendenti di avere condizioni di lavoro analoghe a quelle dei competitori low coast. Se il loro "no" insurrezionale non è motivato dal rifiuto di licenziare dei colleghi ma dall’intento di non compromettere ulteriormente le proprie condizioni di lavoro, il “no” diventa un “dopo di noi il diluvio”:
siamo disposti a mandare tutto in malora pur di non cambiare.
E qui scatta la risonanza con il referendum costituzionale di dicembre.
“Siamo disposti a mandare tutto in malora pur di non cambiare” è esattamente quanto gli elettori del “no “al referendum costituzionale hanno detto.
Da questo punto di vista, il “no” del lavoratore garantito che non accetta il mutamento dei tempi e delle condizioni punta diritto al cuore della lezione renziana riassumibile in: "cambiare per non morire”.
Il “no” dei lavoratori Alitalia che non accettano di lavorare nelle condizioni dei colleghi di Ryan Air è piuttosto un triste : morire per non cambiare.
Monica Montanari
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